Orfeo ed Euridice: una storia d’amore
Il mito narra la storia d’amore tra due giovani: Orfeo ed Euridice. Lui cantore e poeta, lei bellissima ninfa.
Una storia d’amore segnata da un tragico destino. Euridice nel tentativo di sfuggire alle insistenze del pastore Aristeo, innamoratosi di lei, calpesta inavvertitamente un serpente che mordendola le provoca la morte. Orfeo disperato decide di scendere negli inferi, il regno dei morti, e di convincere Persefone e Ade a liberare l’amata. Grazie alla sua musica riesce a commuovere gli dei degli inferi che decidono di liberare Euridice ma ad una condizione: sul sentiero di ritorno non avrebbe mai dovuto voltarsi a guardarla fino all’uscita dall’Ade.
Ma durante il viaggio di ritorno, non sentendo che silenzio dietro di lui, viene colto dal dubbio e così si volta a guardare. In quell’istante i due sguardi si incontrano per un ultimo addio prima che Euridice scompaia definitivamente nel buio degli inferi.
Perché Orfeo si è voltato?
Questo gesto inspiegabile di Orfeo che sancisce un finale tragico, ha dato vita nel corso della storia a molteplici interpretazioni.
Di fatto dopo avere avuto il coraggio di affrontare un’impresa così ardua, dopo essere riuscito ad addolcire col canto il cuore delle divinità degli inferi e dopo essere riuscito ad indurre Ade e Persefone a restituirgli l’amata alla sola condizione di non volgersi a guardarla fino a che l’ascesa non fosse terminata, non si spiega perché Orfeo si sia girato, vanificando ogni sforzo. Che cosa lo abbia spinto ad agire così, è la domanda alla quale si è tentato di dare una risposta.
Il mito di Orfeo ed Euridice ha promosso e ispirato una serie pressoché infinita di variazioni narrative, le più famose sono quella di Virgilio contenuta nel IV libro delle Georgiche e quella di Ovidio nel libro X delle Metamorfosi.
Ogni variazione narrativa ha colorito il racconto donando quelle sfumature che hanno contribuito a stimolare ogni tipo di riflessione.
La narrazione, sulla quale sarà basata la nostra interpretazione, è quella del poemetto “Orfeo. Euridice. Hermes”, di Rainer Marie Rilke, scrittore e poeta austriaco dei primi del novecento.
Ma prima di inoltrarci nella lettura del poema, vediamo cosa rappresentano gli inferi e soprattutto cosa significa entrarci.
Cosa sono gli Inferi e qual è il loro significato simbolico.
Nella mitologia gli inferi hanno sempre raffigurato l’aldilà, il mondo nel quale risiedono i morti. Per gli antichi greci gli inferi erano chiamati Ade dal nome del dio che vi presiedeva come re.
Ade era così sia il nome del luogo delle anime che il nome del dio stesso che vi regnava, mentre Persefone, sua sposa, era la regina e dea degli inferi.
Il discendere negli inferi, passaggio che ritroviamo in molti miti, di fatto è una rappresentazione del viaggio interiore che l’essere umano deve affrontare nel suo sviluppo da individuo, come costante dell’evoluzione umana.
Gli inferi pertanto raffigurano il mondo oscuro interiore che ognuno prima o poi deve fronteggiare nel suo percorso di crescita. In psicologia questo mondo è chiamato Ombra ovvero quella parte buia di noi che non conosciamo ma che ci appartiene. È “l’altra parte di noi” che la nostra coscienza fatica a riconoscere, ed è costituita da tutto ciò che è stato, nel corso della nostra esistenza, inconsciamente rimosso perché ritenuto “brutto, sporco e cattivo”. In questa nostra parte oscura, sono racchiuse tutte le nostre paure più profonde, i nostri demoni, tutto ciò che ci condiziona e influisce la nostra vita, se pur inconsciamente, rendendoci schiavi di noi stessi.
Scendere negli inferi significa intraprendere un viaggio per incontrare la nostra Ombra, significa affrontare i nostri demoni e sconfiggerli, unico modo per trasformare il buio in luce, ampliare la nostra coscienza e raggiungere una maggiore completezza.
La discesa negli inferi pertanto simboleggia un processo di trasformazione interiore; la morte non è intesa come cessazione della vita ma come un suo rinnovo.
A volte, entrare in questo mondo oscuro, siamo noi stessi a deciderlo, perché sentiamo il bisogno di un cambiamento forte e radicale, a volte, se non siamo noi a prendere la decisione, è la vita stessa che ci porta lì, negli inferi, davanti ai nostri demoni.
Scendere è un attimo, è la risalita che è ardua. Perché risalire per ritrovare la luce implica dare la morte a quelle parti del nostro Io che richiedono una trasformazione, pur se dolorosa.
La risalita dagli inferi presuppone quindi un profondo cambiamento interiore; non si esce davvero dal mondo delle ombre con un semplice miglioramento, ma solo attraverso una più pura e intensa visione di sé stessi e del mondo: è impossibile l’ascesa senza un cambiamento di visione.
Euridice non entra volutamente negli inferi ma è la vita che la porta lì, è costretta in qualche modo ad affrontare la sua Ombra ed è proprio un serpente, che non a caso è un simbolo di trasformazione, a condurre Euridice davanti ad essa. Orfeo invece pur decidendo volontariamente di scendere negli inferi, sembra non imparare la lezione, sembra non comprendere la necessaria trasformazione per potere avere nuovamente la sua amata.
Il poema di Rainer Marie Rilke: “Orfeo. Euridice. Hermes”
In questo straordinario poema , Rilke narra la parte finale del mito: il viaggio di ritorno dagli inferi che vede Orfeo davanti sul sentiero, e dietro Hermes, il dio che mette in comunicazione il mondo “sopra” con quello “sotto”, che conduce per mano Euridice.
Era l’arcana miniera delle anime.
Simili a silenziose vene d’argento
ne penetravano la tenebra.
Tra radici scaturiva il sangue che sale verso gli uomini
e greve come porfido appariva nella tenebra.
Nient’altro era rosso.
C’erano rocce
e boschi inanimati. Ponti sopra il vuoto
e quello sconfinato e grigio stagno
cieco che pendeva sul suo fondo lontano
come cielo di pioggia su un paesaggio.
Tra i prati, placida e colma di indulgenza,
biancheggiava pallida la striscia di un unico
sentiero, stesa nella sua lunga incertezza.
Venivano per quest’unico sentiero.
Avanti agile l’uomo col mantello azzurro,
muto e impaziente, gli occhi dinanzi a sé.
Senza masticarlo, il suo passo divorava
il sentiero a grandi morsi; le sue mani
chiuse pendevano grevi dalle pieghe
della veste, ignare ormai della lieve
lira ch’era sbocciata alla sua sinistra
come tralcio di rose tra i rami d’olivo.
E i suoi sensi erano come lacerati:
lo sguardo correva innanzi come un cane,
si volgeva e gli era accosto, poi di nuovo
lontano, per fermarsi in attesa alla prima svolta –
come un odore l’udito gli restava alle spalle.
A tratti gli pareva di sentir giungere
il passo degli altri due che dovevano
seguirlo in salita lungo lo stesso sentiero.
Poi dietro di sé solo l’eco dell’ascesa,
e il suo mantello sollevato dal vento.
Si diceva – verranno; e lo diceva ad alta voce,
e subito udiva il suono smorzarsi.
Eppure venivano, due nel terribile silenzio
di un lento andare. Se avesse potuto volgersi
anche solo una volta (se guardare indietro
non fosse già la rovina dell’impresa
ancor prima di compierla) li avrebbe visti
in un leggero attardarsi senza parole:
Il dio dei passaggi e del messaggio
lontano, l’elmo sugli occhi chiari,
l’agile bastone proteso in avanti,
e alle caviglie il battito d’ali;
e affidata alla sua mano sinistra: l e i.
Lei così tanto amata da trarre più lamento
da una sola lira che mai da donne in lutto;
da fare mondo dal lamento, dove tutto
era ancora una volta: bosco e valle,
sentiero e villaggio, campo e fiume e animale;
e intorno a questo mondo lamento,
come intorno all’altra terra, roteavano
un sole e un cielo silenzioso d’astri,
un cielo lamento dalle stelle sfigurate:
Lei così tanto amata.
Ma veniva per mano al dio, il passo
costretto dalle lunghe bende funebri,
incerta, docile e senza impazienza.
Era in sé, come una più alta speranza,
dimentica dell’uomo che la precedeva,
come del sentiero che risaliva alla vita.
Era in sé. E il suo essere morta
la ingravidava come pienezza.
Simile a un dolce frutto di tenebra,
era così piena della sua grande morte,
tanto nuova che niente comprendeva.
Era in una nuova adolescenza,
e intoccabile; il suo sesso era chiuso
come un giovane fiore prima di sera,
e le sue mani tanto disavvezze
alle nozze che persino l’impercettibile
sfiorarla di quel contatto divino
la feriva per troppa intimità.
Non era già più la donna bionda
evocata talvolta nei canti del poeta,
né più profumo e isola dell’ampio letto
né più proprietà di quell’uomo.
Era già sciolta come lunga capigliatura,
sparsa come pioggia che cade,
come provvista infinitamente ripartita.
Era già radice.
E quando all’improvviso il dio
la trattenne, pronunciando con voce
dolente le parole: “si è voltato” –,
non comprese e disse piano: “c h i ?”.
Ma lontano, come tenebra sulla soglia
chiara, stava qualcuno irriconoscibile
in viso. Stava e guardava, lungo la striscia
di un cammino erboso, il dio del messaggio
con occhi colmi di tristezza volgersi
in silenzio a seguir la figura di lei che
già tornava per quel sentiero, il passo
costretto dalle lunghe bende funebri,
incerta, docile e senza impazienza.
(traduzione di Mario Ajazzi Mancini)
Euridice
Nelle toccanti parole di questo poema emerge un’Euridice profondamente cambiata. Era in sé, scrive l’autore, dando l’idea di una donna che ha trovato il suo centro nello stare in sé stessa, una donna pronta per una nuova rinascita, pronta per una nuova adolescenza. Euridice ha avuto una profonda trasformazione e ora non è più la donna bionda evocata, non è più una costruzione illusoria che risponde alle aspettative del suo amato, ora come essere, che può esprimere una nuova pienezza, non è più proprietà di quell’uomo.Il viaggio negli inferi ha dato ad Euridice una rinnovata personalità.
Quando Hermes le dice che si è voltato , riferendosi naturalmente a Orfeo, Euridice chiede C h i ? ;smarrita, sembra non sapere più neanche chi sia Orfeo.Tutto è talmente nuovo che nulla può più comprendere.
La trasformazione che comporta l’incontro con la propria Ombra, porta ad una maggiore consapevolezza di sé e dell’altro. La persona di cui ci si innamora, automaticamente si spoglia di tutte quelle illusorie qualità attribuitole, per mostrarsi per ciò che è veramente. Vi è una più ampia e nitida visione della realtà, tutto assume un maggiore grado di chiarezza al punto che la persona amata non la si riconosce più per come la si era vista fino a quel momento.
Ad Euridice sembra accadere proprio questo. Orfeo spogliato di quel velo illusorio non è più riconoscibile.
Orfeo
Orfeo si è voltato perché colto dal dubbio, il dubbio che Euridice non fosse più dietro di lui.Un dubbio che possiamo forse definire più un’intuizione dato che, di fatto, l’Euridice tanto amata non c’è più veramente.
Una nuova Euridice percorre il sentiero della risalita e può essere vista solo con gli occhi di chi ha acquisito una più ampia visione di sé e del mondo, attraverso una vera trasformazione interiore.
Orfeo se pur disposto volontariamente a scendere negli inferi, non comprende il significato intrinseco del suo viaggio; non capisce che non basta semplicemente rifare il cammino a ritroso, è necessario conquistare un più elevato grado di consapevolezza e realizzare un cambio di visione. Il viaggio negli inferi, qualunque sia il motivo che porta ad affrontarlo, è sempre un processo di profonda trasformazione.
Ad Orfeo sembra sfuggirgli questo passaggio. Sforzarsi di salvare Euridice astenendosi dall’avere una nuova visione, significa non vedere l’amata, non vedere chi è veramente e non riconoscerne la sua più autentica natura. Orfeo rimane pertanto ancorato al suo passato a quelle sicurezze alle quali non vuole rinunciare, non contempla la trasformazione, necessaria per ritrovare l’amore.
Volgendo lo sguardo indietro, Orfeo volge di nuovo lo sguardo verso il buio, verso il passato, e la luce, che conduce alla nuova vita, rimane davanti dove ha distolto lo sguardo.
La legge dell’amore
La storia di Orfeo ed Euridice esprime ciò che l’amore esige: “allineamento”
Non può esserci una presa di coscienza in uno solo dei due, il cambio di visione deve avvenire in entrambi. Bisogna che ciascuno affronti il proprio mondo delle tenebre per ritornare alla luce rinnovato, con una maggiore maturità psicologica e una maggiore consapevolezza di sé e dell’altro.
Se questo avviene in uno soltanto si crea una sorta di frattura che impedisce di rimanere uniti alla persona amata; è necessario pertanto che ci sia un’ allineamento tra i due amanti.
La posizione assunta sul sentiero da Orfeo ed Euridice e il loro diverso ritmo nell’avanzare, trasmette la sensazione di una profonda mancanza di connessione: lei dietro che avanza incerta, docile e senza impazienza mentre lui davanti che avanza agile, muto e impaziente. Un’immagine che sottolinea una sorta di disallineamento.
Il sentiero dell’amore chiede di essere percorso fianco a fianco. Solo quando entrambi gli amanti realizzano quella necessaria trasformazione che consente di comprendere in modo autentico sé stessi e l’altro, solo allora può esserci l’unione in un amore profondo e durevole.
Senza questa duplice presa di coscienza tutto ciò non è possibile e Orfeo ed Euridice ce lo hanno insegnato, se non c’è un allineamento non può esserci un finale a lieto fine.
Bibliografia:
- Umberto Curi – “Miti d’amore – filosofia dell’eros”